domenica 10 gennaio 2016

Il sepolcro degli Orazi e Curiazi nel cuore del Lazio antico

 Il monumento visto dalla Via Appia. Sullo sfondo la Chiesa di S. Maria della Stella

Come abbiamo visto fu Alba Longa la vera progenitrice di Roma.
Da Alba Longa, fondata da Ascanio/Iulo, figlio del troiano Enea, arrivarono i gemelli Romolo e Remo: questo secondo la leggenda più elegante, grecizzante.
Secondo altra tradizione Alba Longa preesisteva a tali fondatori: già abitata dall’antichissimo popolo dei Siculi, fu occupata dagli Aborigeni del re Latino che solo in seguito si fusero coi Troiani originando, appunto, il popolo Latino.
Durante il regno di Tullo Ostilio sarà la figlia Roma, divenuta troppo potente, a distruggere la città madre (metropoli) sino a dissolverne persino le vestigia.
Oggi è discussa la posizione reale dell’antica Alba Longa; secondo Dionigi di Alicarnasso sorgeva fra il lago d’Albano e il Monte Cavo (Vulcano Laziale).
A ogni modo è qui, nel Latium Vetus, che originano i più risalenti miti della nostra regione e, perciò, di Roma stessa.
Il territorio su cui sorge l’attuale cittadina d‘Albano Laziale (al XV miglio della Via Appia) è immerso, quindi, in tale magma protostorico.
Uno dei monumenti che più colpiscono e affascinano anche l’occhio del profano è il cosiddetto sepolcro degli Orazi e dei Curiazi, posto lungo l'Appia, poco prima dell’altura che separa Albano da Ariccia.
Ricordiamo il celeberrimo episodio della disfida degli Orazi e Curiazi nelle parole di Tito Livio (Ab urbe condita, I, 24-25):


"Per puro caso in entrambi gli eserciti c'erano allora tre fratelli gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi … I re propongono ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si sarebbe battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la supremazia ... i gemelli, come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni ... Viene dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni opposti nello scontro, si buttano allo sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi. Né gli uni né gli altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle sorti future della patria che loro soli possono condizionare. Al primo contatto l'urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene agli spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la meglio, trattenevano muti il respiro. Ma quando poi si giunse al corpo a corpo e gli occhi non vedevano solo più fisici in movimento e spade e scudi branditi nell'aria, ma cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani, colpiti a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre Albani soltanto feriti. A tale vista, un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane, persa ormai ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto indenne, non poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era pronto a dare battaglia contro uno per volta".

Il sepolcro visto da Via della Stella

"Quindi, per separarne l'attacco, si mise a correre pensando che lo avrebbero inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero permesso. Si era già allontanato un po' dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo piuttosto sgranati e che uno gli era quasi addosso. Si fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso l'avversario e si preparava al secondo duello. Allora, con un boato di voci - quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i Romani presero a incitare il loro campione che cercava di porre presto fine al combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere - e non era tanto lontano -, uccise il secondo. Ora lo scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio risultava nelle forze a disposizione e nelle speranze di vittoria. L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco per un terzo scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato dalle vittorie, era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un combattimento. Il Romano gridò esultando: 'Ho già offerto due vittime ai mani dei miei fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra, che Roma possa regnare su Alba'. L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le armi. Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso, gli infilò la spada nella gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un'ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione. I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro".

La tradizione secondo cui il monumento fu sepoltura dei cinque eroi (cinque, infatti, sono i coni che partono dalla base) origina nel XVI secolo, a opera del geografo Leandro Alberti nella sua monumentale ricognizione del territorio italiano (Descrittione di tutta Italia, 1551) e persistette tenace sino all’Ottocento, quando le evidenze archeologiche subirono un’indagine più meticolosa.

Sarà il grande indagatore della campagna romana, Antonio Nibby, a porre in risalto le ultime parole del resoconto liviano, ove si evince che, se la morte dei primi Orazi avvenne nei pressi di Alba, quella dei Curiazi albani trovò luogo più vicino a Roma, dove l’ultimo Orazio era fuggito per applicare la sua astuta tattica (Nibby suppone il tumulo degli Orazi fosse a circa 5 miglia da Roma, e, perciò, a dieci da Alba).
Lo studioso fa propria la tesi di un altro dotto, Emanuele Lucidi (Memorie storiche dell’antichissimo municipio ora terra dell‘Ariccia), secondo cui il monumento fu edificato dalla famiglia degli Azzii o Attii (nel I secolo a. C., in età tardo repubblicana), in memoria del loro capostipite Arunte, figlio del re etrusco Porsenna, ucciso nella battaglia di Ariccia in uno scontro fra Etruschi da parte e Aricini e Cumani dall'altra.
Ci soccorre Livio (Ab urbe condita, II, 14):

"Abbandonata la guerra con Roma, Porsenna, per non dare l'idea di aver portato le sue truppe invano in quella zona, invia il figlio Arrunte ad assediare Aricia con parte dell'esercito. Sulle prime l'attacco senza preavviso paralizzò gli abitanti di Aricia. Poi però, ricevuti rinforzi dalle tribù latine e da Cuma, acquisirono una tale fiducia nei propri mezzi che osavano affrontare il nemico in campo aperto. Lo scontro era soltanto agli inizi quando gli Etruschi sferrarono un attacco talmente poderoso da sbaragliare gli Aricini al primo vero urto. Le coorti venute da Cuma, opponendo la tattica alla forza bruta, operarono un lieve scarto laterale e si lasciarono superare dai nemici che avanzavano disordinatamente; quindi, tornando sui propri passi, li assalirono alle spalle. Così gli Etruschi, rimasti presi tra due fuochi, furono fatti a pezzi nonostante ormai avessero quasi in mano la vittoria. I pochissimi superstiti, privi del loro comandante e di un qualsiasi rifugio più vicino, si trascinarono fino a Roma, disarmati e nelle condizioni e nell'aspetto tipici dei supplici. Furono accolti benignamente e ospitati qua e là presso privati. Una volta rimessisi in sesto, alcuni tornarono a casa e riferirono l'accoglienza fraterna ricevuta. Molti invece rimasero a Roma, per l'affetto che li legava alla città e ai loro ospiti. Il quartiere, che venne loro assegnato perché vi abitassero, in seguito prese il nome di Vico Etrusco“.

Ricostruzione del Mausoleo di Porsenna

Lo stile etrusco dell’edificio fu già notato dal sommo incisore Giovanni Battista Piranesi, che notò le rassomiglianze stilistiche del sepolcro albanese con quello di Porsenna, così descritto da Plinio (Storia naturale, XXXVI, 19; Plinio, in tal caso, cita Varrone):

"Il re venne sepolto presso la città di Chiusi, in un luogo in cui ha lasciato un monumento di forma quadrata fatto di blocchi di pietra squadrati: ogni lato è lungo trecento piedi e alto cinquanta. All’interno di questa pianta quadrata si sviluppa un labirinto inestricabile, costruito in modo tale che se qualcuno vi si introducesse senza un gomitolo di filo non riuscirebbe più a ritrovare l’uscita. Al di sopra di questa base quadrata si elevano cinque piramidi, quattro angoli e una centrale che sono larghe alla base settantacinque piedi [m. 22,2] e alte centocinquanta [m. 44,4]; come coronamento hanno sulla punta un disco di bronzo e un unico baldacchino ricurvo che si sovrappone a tutte e cinque e alla quale stanno appese, rette da catene, delle campanelle … al di sopra di questo disco stanno quattro piramidi alte ciascuna cento piedi [circa 30 metri], e sopra di esse un’unica piattaforma con cinque piramidi

Recentemente l’archeologo Coarelli ha proposto una soluzione molto più perspicua: il sepolcro sarebbe stato edificato dalla gens Arruntia, famiglia d’antichi natali etruschi con possedimenti in Ariccia, in ricordo del loro antenato ivi caduto.

Catacombe di San Senatore

Di fronte al monumento si trova la chiesa parrocchiale di Santa Maria della Stella (il nome deriva da una stella che orna il manto della Vergine, effigiata in un dipinto alle spalle dell‘altare).
Sotto alla chiesa (ricca di un cimitero storico comunale) sono le catacombe di San Senatore, che, a loro volta, sorgevano su un’area templare dedicata al dio Esculapio.

Il cimitero storico comunale

Da notare, come ultima curiosità, che uno dei due cognomen della gens Arruntia è Stella.
Il poeta Publio Papinio Stazio saluta un Lucio Arrunzio Stella all'inizio delle sue Silvae ("Statius Stellae suo salutem"), dedicandogli, inoltre, un carme (epitalamio) in occasione delle nozze con la moglie Violentilla. 

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